BIOGRAFIA

Sono nata in Sicilia nel 1954, e sono cresciuta fra la Brianza e Como. Negli anni del liceo e dell’università ho vissuto, con la famiglia, a Roma, dove mi sono laureata in Lettere alla Sapienza. Dal 1985 vivo a Milano.
Giornalista, ho cominciato a scrivere di sport per il Coni, in seguito di moda e viaggi.
Sono stata poi assunta nella casa editrice De Agostini infine, per quasi trent’anni, ho lavorato in Rizzoli, nei periodici (casa e design). Mi sono sempre occupata anche di editoria, recensioni, revisione di testi. Nel 1992, con la casa editrice Clup ho pubblicato la guida Albania, paese in cui ero stata, per mia iniziativa, nell’ottobre 1989 (un mese prima della caduta del Muro di Berlino).
Nel 1993 ho partecipato al Premio Montblanc col mio primo romanzo Il Catalogo, inedito. Nel 2002 è uscito Per l’aperitivo; nel 2005 Senza trucco, entrambi con Mazzanti Editori di Venezia. Ho poi pubblicato, con ilmiolibro.it, un altro lavoro di narrativa: Due locali a Chinatown (2010) e Vedo la Terra blu (2011),raccolta di pensieri e recensioni apparsi dapprima in un blog, successivamente in un sito, poi chiusi. È del 2022 il romanzo più recente, una memoria, Cronache degli ultimi tempi, sul periodo della pandemia a Milano, e dedicato al giornalista Stefano Carrer, prematuramente scomparso nel 2020. Vedi anche il sito www.buscarlevante.it.

INTROSPETTIVA

Neologismo, perché qui inteso
come sostantivo (al pari di
retrospettiva). Episodi e analisi
personali, interiori.

October 26, 2025

COME UN'INTRODUZIONE - 3

Il 16 marzo 1978 Aldo Moro fu rapito dalle Brigate Rosse: una di quelle date di cui si ricorda per sempre dove ti trovavi. Quella mattina studiavo nella Biblioteca Alessandrina della Sapienza, ancora sulla mia infinita tesi. Non c’erano cellulari né social, eppure - rivendicato dalle Br il sequestro alle 10.10 con una telefonata all’agenzia Ansa - nel giro di pochi minuti la notizia arrivò nell’università. In breve, ricordo benissimo, eravamo nei corridoi a discutere, sommersi da dubbi su come la politica avrebbe dovuto reagire, o elencando una serie di certezze. Nessuno scambio con militanti Br in carcere, nessuna trattativa. C’era in ballo il compromesso storico fra Democrazia cristiana e Partito comunista, di cui Moro, come Berlinguer, erano artefici e promotori. Gli schieramenti si delinearono presto: Pci e Movimento sociale di Almirante erano compatti per il no a qualunque trattativa; il Partito socialista di Bettino Craxi aveva una posizione molto più sfumata, insieme con altri. Ricordo un dibattito furibondo, in cui istintivamente non riuscivo a decidere con freddezza: la freddezza - quell’atroce freddezza mostrata dai terroristi nei confronti dei cinque uomini della scorta di Moro, colpiti da 49 pallottole nel giro di tre minuti - era appunto la condizione da rifiutare in partenza, prima di qualunque ragionamento, secondo me.

Non so se questo atteggiamento “buonista” si era formato anche a causa delle riflessioni suscitate frequentando il movimento delle donne. Resta il fatto che il femminismo, all’epoca, non prese alcuna posizione. E’ sempre del 1978 il pamphlet di Anna Maria Mori Il silenzio delle donne e il caso Moro che "chiede conto” di questa assenza, anzi, la spiega parlando di una subalternità di fatto a questa o quella teoria.

Le rispose a stretto giro la rivista Effe, con un articolo del gennaio 1979, a firma Moira Miele e Stella Conte, che trovo ancora oggi coerente. Spiega quel silenzio con una critica radicale alla dicotomia degli schieramenti proposta sempre dalla politica (al maschile). Un passaggio: "Chiedere espressamente al movimento femminista qualsiasi altro intervento su un caso del peso politico della vicenda di Moro significa non rammentare i contenuti e le lotte del movimento femminista stesso contro lo Stato di polizia (non possiamo dimenticare gli arresti o le arbitrarie perquisizioni di quei giorni, o le grida in Piazza del Gesù, sotto la sede democristiana: «Pena di morte!» ), o ancora contro la retrività di talune forze politiche (dimenticare che la D.C., dalla liberazione ad oggi, gestisce un tipo di potere che in parte è causa di quanto avvenuto).” Ricordo bene alcune donne certe della necessità della linea dura … eppure oggi si trattano scambi di prigionieri anche con i terroristi di Hamas …

LIBRI PRIMI Ho sempre amato leggere, anche se passavo molto tempo a giocare all’aperto e a fare sport. Ancora oggi è così.

Conservo tutti i grandi libri illustrati dell’infanzia che avevano su di me un effetto ipnotico. Potevo avere otto, nove anni quando mi regalarono una scatola di cioccolatini confezionata insieme con un libro. Era La Sovrana del campo d’oro di Emilio Salgari che iniziai subito a leggere con massima concentrazione, trascurando completamente i dolci.

Ma i libri più importanti della mia infanzia sono stati Siao Li, storia di un bambino cinese, Il Giro del Mondo in 80 giorni, e soprattutto, di gran lunga il mio preferito, Mabel tra gli Esquimesi, di Ginevra Pelizzari, dove trovo scritto il mio nome e la data, 12-6-963. Erano libri di grande formato con bellissime illustrazioni (sia benedetta la Fratelli Fabbri Editori), ma mi colpivano le storie, tutte ambientate in luoghi lontani: Mabel, salvata da un naufragio per il coraggio del ragazzino Icoluki, e del capo del villaggio Isumatak, che impara a condividere la vita di una sconosciuta tribù nella quale è accolta, prima di ritrovare il padre con cui viaggiava.

Poi arrivarono i grandi classici, seppure in versione ridotta: I tre moschettieri, L’isola del tesoro e l’immenso Moby Dick. Naturalmente leggevo anche Piccole donne, Mary Poppins e Violetta la timida di Giana Anguissola. Quest’ultimo mio padre non voleva comprarmelo, diceva che io non ero timida, perciò che tornassi alle grandi avventure sfidanti! Ma tutte le mie compagne lo avevano letto, e naturalmente infine mi fu regalato, e ne fui contentissima. Avevo 12 anni, e il libro raccontava di una ragazzina timida ma brillante e carina che assiste alla trasformazione da ranocchio cicciottello a bel giovane del suo amico del cuore. Per una volta, non è la fanciulla che dimagrisce, toglie gli occhiali e impara a truccarsi per farsi apprezzare.

La mia passione (quasi patologica!) per la saggistica nasce in un momento preciso, con la lettura (mia madre aveva scritto il mio nome e la data, 3-5-1964, Como) di un volumetto di Georg Popp della serie 'I Grandi personaggi del Mondo' dedicato agli Uomini al Servizio della Scienza. Quindi Copernico, Newton, Spallanzani, Lavoisier, e molti altri. Edoardo Jenner (1749-1823): la storia più inquietante - di colui che vinse la morte nera, il vaiolo - resa indimenticabile, per me, anche dall’illustrazione dello scienziato che inocula il vaccino, e poi il germe della malattia, a un ragazzino, e poi trascorre notti insonni nel timore di essersi sbagliato. E invece, nel 1801, in Inghilterra si vaccinarono più di 10 mila persone. In Italia la profilassi fu introdotta da Luigi Sacco, medico dell’Ospedale Maggiore di Milano.

Così scoprivo che il fascino di avventure vere era superiore a ogni altro, che si potevano raccontare storie estreme, avvincenti, e nello stesso tempo imparare cose importanti accadute in tempi passati o vicini a me. Naturalmente non è stato un processo subito cosciente ma, da quel momento, la narrativa è stata a volte quasi un pretesto per farne in realtà un oggetto di analisi. Come mi è successo, in modo decisivo, con il saggio di Vito Amoruso sulla Letteratura beat americana, Laterza, 1969 (da me letto qualche anno dopo). Colpo di fulmine. Punto di svolta.

Il fatto è che la saggistica - cominciavo a capire - quando commentava un evento, o un libro, un autore, esprimeva anche una posizione politica, cioè qualche cosa di molto articolato, a volte non esplicita ma presente come sottotesto. Così Vito Amoruso (anglista e americanista, Università di Bari) analizza romanzi e poesie di Kerouac, Ginsberg, Corso e Ferlinghetti - che molti ragazzi della mia generazione conoscevano, anch’io, e a volte esaltavano -; ne studia il valore letterario e poetico ma, infine, ne denuncia in fondo la scarsa incisività sociale, il velleitario anarchismo, infine spiega la sostanziale resa della “mistica rivolta beat” alla società di massa contro la quale si era scagliata.

Alcuni saggi sono stati per me adrenalina pura, come difficilmente i romanzi riuscivano a essere (con alcune eccezioni, ovviamente: l’Iliade, Dedalus e Ulisse di James Joyce, Don Chisciotte, Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, romanzo picaresco dal quale, secondo Hemingway, deriva tutta la letteratura americana moderna, Moby Dick).

Ricordo ancora con emozione il 'Saggio sui Promessi Sposi' di Ezio Raimondi, Il romanzo senza idillio (Einaudi 1974): in cui il primo dei capitoli traccia il retroterra che porta Manzoni ‘verso il realismo’, il galileiano Manzoni, che supera il clima intellettuale del Cinque e Seicento, dominato da una realtà da odorare e toccare, condizionato “dall’odorato e dall’udito assai più che dalla vista”. Citando Lucien Febvre riporta che “l’olfatto… è appunto il senso più animale e l’udito rappresenta un senso intermedio di fronte alla vista, che assume una funzione assai più intellettuale, gnoseologica e quantitativa”. La mentalità scientifica “ha bisogno della vista in quanto la vista è per eccellenza il senso che stabilisce un rapporto a distanza”.

E’ un libro straordinario, questo di Raimondi, con infiniti riferimenti, da McLuhan (Galassia Gutemberg) a Walter J. Ong (1912-2003, storico, antropologo, filosofo cattolico statunitense) che, a proposito dell’avvento della stampa, sostiene che anche questa rivoluzione/realtà tipografica “instaura… un nuovo archetipo dell’attività mentale… dove si prospetta come osservazione, visione e rapporto di oggetti”. L’occhio è dunque “il più astratto dei sensi, il più puro di fronte, poniamo, al tatto”. In questo approccio sempre più scientifico al romanzo, sono splendide (e freschissime, ora che rileggo a distanza di una vita!) le citazioni dei testi di Galileo, di cui Raimondi sottolinea “gli incanti della sua scrittura più ariosa”. In Galileo, ancora il processo di visualizzazione, "il ripetersi del verbo vedere, quasi come il refrain d’una certezza oggettiva: ... 'potrete lasciarlo star sopra i carboni i mesi interi, e sempre vedrete i globetti del fuoco ascendenti' "… Benedetto Castelli ed Evangelista Torricelli sono altri nomi della generazione galileiana col gusto della pagina scientifica e l’esperienza percettiva, che ritrovo in questo densissimo saggio. E’ del Castelli il Discorso sopra la vista, che ancora si concentra su ottica e visione. Raimondi nota: “Ora, nel movimento delle prove e delle esperienze che sostengono il discorso dimostrativo, non può restare fuori l’immagine di un paesaggio al naturale, che si apre di là dalla finestra per essere calcolato nei valori reali delle sue distanze…”.

Dopo tale salto in avanti, Manzoni, oltre al Leopardi degli spazi infiniti, si allontana dalla tradizione neoclassica…

Proprio nella Pentecoste, difatti, l’ottica newtoniana entra nell’immagine più radiosa del Manzoni “nella forma dinamica di una rivelazione interiore". “Non a torto qualcuno ha visto nel paragone della luce della Pentecoste la prima immagine della letteratura italiana moderna: Come la luce rapida/piove di cosa in cosa,/e i color vari suscita, dovunque si riposa,/…

Più avanti in questa rivoluzione, dove i settenari della poesia costringono ancora troppo questa realtà sperimentale e visiva, preme l’esigenza della “misura docile e aperta della prosa”. Così, rileggendo dopo tutto questo dai Promessi Sposi “Quel ramo del lago di Como…”, o l’apertura del quarto capitolo, come cita Raimondi, sempre mi emoziono.

“Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo…”

“Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole si alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente giù per i pendii, e nella valle…”

“La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse rattristava lo sguardo e il pensiero”.

Al secondo posto della mia top ten saggistica, dopo Raimondi ci sta senz'altro il saggio di Luca Cerchiari su Miles Davis (Oscar Mondadori, 2001), altro testo che ha attivato i miei neuroni come in un acceleratore di particelle! Esposizione di teorie per me anche abbastanza difficile, eppure galvanizzante, dato che cerco da tempo - con tragici periodi di sospensione in cui dimentico tutto - di studiare l'armonia musicale.

Ben venga comunque, a un grado più debole di impegno mentale, il bel saggio recentissimo di Alessandro Baricco Breve storia eretica della Musica Classica (Feltrinelli, settembre 2025), piacevole e stimolante. Adatto anche ai più giovani: rigoroso e pieno di curiosità. E' importante apprendere che la monumentale, meravigliosa musica classica che conosciamo, che delizia le nostre orecchie di generazione in generazione, nonostante i rigorosi modelli matematici utilizzati da Pitagora (VI secolo a.C.), per risuonare così splendida e armoniosa, è stata sottoposta a radicali, brutali aggiustamenti nella riduzione dei suoni.

Bach, con la grandiosa applicazione di queste suddivisioni, crea un'opera totalizzante, che risuona perfetta in tutte le 24 tonalità (Il clavicembalo ben temperato che cioè è accordato, come l'autore si raccomanda venga fatto, in modo da risultare sempre "orecchiabile"). Scrive Baricco di Bach: "D'altronde nel suo necrologio, rarissima fonte biografica sul suo conto apparsa quattro anni dopo la sua morte, lo si tramandava come un genio dell'accordatura (che fa anche sorridere: è come lodare il più grande chef del mondo per come prepara la tavola).

Le note, poi, sono quasi una campionatura fra i moltissimi suoni percepibili dall'orecchio umano. Pier Francesco Tosi (1654-1732), star del bel canto, insegnava che in un'ottava c'erano 55 note diverse, "era in grado di cantarle tutte e soprattutto di dimostrarne l'origine matematica". In quegli anni esistevano strumenti con 19 tasti fra un Do e il successivo: "Il padre di Mozart... pensava che il Mi bemolle non fosse lo stesso suono del Re diesis", dove oggi abbiamo un solo tasto nero. E questa è la musica che presumibilmente insegnò al piccolo Amadeus. Quello che fu quindi chiamato "temperamento equabile" aveva soprattutto la (sconcertante) caratteristica di essere "incredibilmente riduttivo".

Tuttavia, dopo una piccola cosa di taglio saggistico, dedicata al personaggio di Donna Elvira, dal Don Giovanni di Mozart (avevo letto L’opera lirica o la disfatta delle donne, della filosofa francese Catherine Clement, Marsilio 1979), la necessità di scrivere (lavoro giornalistico a parte) mi ha spinto verso la narrativa.  

Devo ricordare con piacere l’editore Mazzanti (mazzantilibri.it) di Venezia che pubblicò i miei primi due titoli, comprendendone il senso più nuovo, mantenuto poi in tutti i miei romanzetti seguenti.

Mi ha molto interessato, di conseguenza, il pezzo agostano 2025 firmato su Domani da Beppe Cottafavi, in cui, dopo una stellare carrellata di Illustri, si dice deluso dall’attuale sovrabbondanza di scrittori dediti alla “ripetizione infinita dell’autofiction (i fatti loro), delle loro beghe familiari, dentro una ramificata struttura della parentela tra nonne, zie, sorelle, bisnonne, e  una narrativa che pare scritta da gente che ha paura di uscire di casa".

Gentile dottor Cottafavi, non mi voglio allargare: i miei lavori di narrativa hanno per soggetto le donne, e parlano chiaramente dei loro problemi, della loro sensibilità; ci sono parenti e amici, momenti di crisi e analisi introspettive (secondo me, mai intimiste), eppure, la principale chiave di lettura di quel che ho sempre scritto sta nel cercare le risposte ai vari problemi e lutti - da parte delle protagoniste - non ripiegandosi su se stesse o attingendo ai consigli di nonne, zie, sorelle, bisnonne, bensì rivolgendosi al Mondo. C’è sempre moltissimo “fuori” nei miei libri, per me è istintivo, ed è un fuori non giustapposto per divagare (e non è neppure un paesaggio per "far respirare l’azione"): è proprio una “necessità” per riempirsi di contenuti altri, autentico nutrimento spirituale, psicologico, identitario. La rigenerazione interiore riparte durante una lunga nuotata in piscina; oppure ripensando a una sala del Pergamonmuseum di Berlino. Ne vado fiera.

Mi chiedo se questo approccio potrebbe aiutare qualche donna ad adottare un punto di vista che le salvasse da certe claustrofobiche e tossiche dipendenze maschili, poichè siamo stremate dai continui femminicidi… A volte è stato apprezzato il modo di procedere nella vita dei miei personaggi femminili. Forse conta qualcosa.

Come lei conclude: “forse è ancora possibile - tra un algoritmo e Temptation Island - scrivere qualcosa che conti. Magari cominciando da qui: rinunciare al tinello e tornare al mondo”.

Musica per le mie orecchie.

La persona che più di tutti mi ha sempre spronata a scrivere è stato il giornalista Stefano Carrer, del Sole 24 Ore, che ho conosciuto nel 1991 e purtroppo scomparso nel 2020 a soli 58 anni. Oltre al legame sentimentale c'era questa comune passione (famelica) per i fatti della Terra. Affinità elettive. Il giornalismo come la magnifca ossessione.

Mi ricordo il crollo delle Torri gemelle di New York. Guardavamo quelle immagini stranianti alla televisione. Gli avevo chiesto di venire a seguirle insieme dato che io ero in completo stato confusionale e speravo che lui invece fosse in grado di tentare un'analisi di quello che stava succedendo e di rispondere all'assurda domanda "E ora?". Ma naturalmente non disse nulla. Ancora non c'era alcuna certezza sulle cause dei fatti, non si poteva essere sicuri delle fonti, e delle fonti davvero attendibili. Lo osservavo con aria interrogativa mentre fissava lo schermo, ma si limitò ad accendere una sigaretta...

Stefano era un giornalista puro, completamente dedito al suo lavoro, e gli oltre 4mila articoli che ha lasciato, ancora oggi offrono analisi utili a cogliere alcuni aspetti del presente. Ancora oggi sono premiati, una lunga scia. La sorella Giuliana corre su e giù per l'Italia a ritirarli!

Il sito buscarlevante.it, a cui ho tanto lavorato, è dedicato a lui, in particolare agli anni trascorsi in Giappone come corrispondente del Sole.

In qualche modo mi ha spronata anche a costruire questo blog; di certo mi avrebbe suggerito di osservare sia me stessa sia i fatti internazionali. E' la mia vera natura e lui lo sapeva.

Rimane questo vulnus del silenzio delle donne sulle questioni di politica, prossime o lontane. Il silenzio sulle guerre, le armi; il tema di come arrivare alla Pace: qui il dibattito è assente, oppure asfittico, un puro slogan che galleggia verso l'orizzonte, verso un mondo migliore che non si intravede. La parola delle donne è necessaria, reclamata, ben argomentando, per esempio dalla filosofa Giorgia Serughetti; ma mi sembra troppo timida e frammentata.

Mia madre mi raccontava che durante la Seconda guerra, con i tedeschi in Sicilia, dovette fuggire, lei sola con alcuni dei fratelli, nelle campagne di Vizzini (borgo di ambientazione delle opere di Giovanni Verga). Era la prima di 10 figli, aveva vent'anni, e le furono affidati i più grandicelli, mentre i piccolini rimasero con la nonna. Capace di decisioni forti, mio nonno - era il segretario comunale del paese  - la spronò ad andare (dividendo la famiglia!) e, cosciente di un disperato pericolo estremo, le consegnò una pistola. Ho sempre in mente quando mia madre mi parlava di questo terribile momento; e poi i miei ricordi proseguono con i racconti di guerra di mio padre: l'8 settembre e il seguito; vite sconvolte dalle scelte fasciste, in quegli anni reali e distopici, vissuti sotto continue minacce. Mia madre non incontrò né tedeschi né fascisti, furono salvi; ma mi riferiva di quell'episodio con rinnovata angoscia, quasi un'ingiustizia da parte di suo padre, perché quel compito disperato assegnatole era certo superiore alle sue forze: non per proteggere se stessa, ma per la responsabilità di proteggere i fratelli.

Sopra la scrivania tengo la foto di Robert Capa in cui Giovanni Maccarone, anziano contadino, o pastore, bello rugoso e curvo, parla con un soldato americano che gli sta accanto accovacciato: hanno la stessa altezza. Maccarone fu ucciso da un cecchino tedesco che l'aveva visto col militare Usa.

La parola PACE al momento mi sembra assai carente di contenuto. Condivido il pensiero di Gianfranco Pasquino: alla Pace si arriva se si comincia a costruire la democrazia. Io farei un ulteriore passo indietro, per quel che ci riguarda. La democrazia presuppone partecipazione, studio, una stampa libera, la volontà di informarsi da fonti verificate: uno sforzo notevole considerato l'alluvione di fake news.

Non mi sento all'altezza di quello che hanno vissuto i miei genitori, anche se cerco di essere coraggiosa come loro. Coraggiosa anche nella ricerca di qualche risposta sensata, che possa interrompere questa afasia globale: i democratici Usa a proposito di Trump, il Disordine mondiale (Manlio Graziano), l'Occidente senza pensiero (Aldo Schiavone)...

Faccio la mia parte come il colibrì della fiaba.

3 - FINE

La guerra è finita. La mia splendida mamma, luglio 1946.

OUTSIDE

Politica e attualità. Interviste,
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Sentimenti in giro per il mondo.

October 4, 2025

SENILITA'

A proposito dell’inverno demografico, per alcuni ormai una glaciazione irreversibile, una risatina apotropaica mi viene spontanea alla lettura di un’affermazione ormai largamente condivisa; e cioè che il problema sia di fronte a un "bivio ineludibile": reagire con mille strumenti per tornare, faticosamente, a crescere, o condannarci a un declino definitivo.

Questo, in sintesi, nella presentazione di Crisi demografica, titolo del 2021, autore Alessandro Rosina, un’autorità su questo tema. La materia che riguarda oramai tutto il mondo, spicca per complessità soprattutto l’Italia, il Bel Paese dei primati negativi sulla natalità, gli aiuti alle famiglie, le politiche sul lavoro, gli incentivi per i figli e così via.

Tra i continui aggiornamenti/allarmi, Carlo Cottarelli, sul Corriere della Sera del 18 agosto, parla chiaro: secondo i dati Istat, le proiezioni sul 2025 prevedono "340.700 nati contro i 370.000 del 2024”. Un vero e proprio tracollo, scrive, se si considera che la discesa è iniziata negli anni Settanta (fino agli anni Sessanta del secolo scorso i nati in Italia ogni anno superavano i 900.000! Ma erano i cosiddetti "Trenta gloriosi", i tre decenni dopo la Seconda guerra, col boom economico e il baby boom). E le cause, come spiega benissimo anche Rosina, sono il minor numero di figli per donna, ma soprattutto - oggi come oggi - proprio per la costante e pluridecennale decrescita, il minor numero di donne potenziali madri: una tempesta perfetta.

Cottarelli invoca una strategia di lungo periodo sull’immigrazione, “non semplicemente decisioni sul numero di permessi nel successivo triennio, come avvenuto finora”; e una strategia per contrastare la denatalità. Lapidario conclude che “sia come sia, al momento non abbiamo una chiara strategia in nessuna delle due direzioni: conseguentemente tanto il problema dell’immigrazione quanto quello della natalità restano irrisolti”.

Infatti, la risatina nervosa è causata dalla mia convinzione che le politiche sul tema “ineludibile” saranno eluse.

Troppe resistenze culturali, politiche asfittiche spacciate per magnifiche sorti e progressive, soprattutto la stessa senilità (mentale) di noi italiani.

Alla ripresa del palinsesto invernale di Radio 24, il direttore del Sole, Fabio Tamburini, ha parlato della crisi demografica come del problema principale che ci troviamo a fronteggiare noi italiani (soprattutto noi italiani), prossimi, se non già arrivati, al punto di non ritorno, e senza particolari capacità di reazione. “Così muore un Paese!” conclude, ed è difficile dargli torto: sono le statistiche a parlare. Non che manchino le idee per invertire la rotta. Sul Corriere della Sera del 25 settembre, Stefano Paleari - ingegnere ed economista - e Ferruccio Resta - ingegnere, ex rettore del Politecnico di Milano - citano le proiezioni al 2040 sulla natalità e l’andamento demografico. Se quest’anno si festeggia la nascita di 350.000 bambini, bisogna ricordare che 20 anni fa erano 550.000; di conseguenza, su una popolazione di 59 milioni di persone, oggi gli over 65 sono il 24 per cento, e nel 2040 saranno il 32 per cento. Le matricole all’Università - scrivono gli autori - nel 2040 “potranno ridursi di quasi il 40 per cento dai valori attuali”.

"La partita non è persa" è il titolo di questo articolo, che infatti organizza in modo convincente alcune possibili contromisure, sul piano delle pensioni, della sanità, delle dinamiche familiari. Cito: “L’esempio della mancanza di conducenti del trasporto pubblico è un sintomo inequivocabile dell’esigenza di una accelerazione delle tecnologie per la guida assistita e autonoma dei mezzi. Esoscheletri, realtà virtuale e droni saranno strumenti indispensabili per la nuova e ridotta forza lavoro.” Anche la sanità deve prontamente riorganizzarsi per l’invecchiamento della popolazione. “E sulla digitalizzazione, il fatto che un cittadino italiano sia ‘un paziente ignoto’ al di fuori della sua Regione, non si può più accettare. Sarebbe come dire che il data base di Ryanair è più ricco di quello dello Stato italiano.”

E poi le “dinamiche familiari e migratorie”, il nodo più difficile, sempre secondo gli autori, che continuano: “Ma ci permettiamo di riprendere la proposta, presentata a Cernobbio, di inserire un’agenda di Governo per il richiamo di studenti e docenti universitari internazionali, che permetterebbero una crescita delle nostre università (anche nei ranking) innescando un ciclo virtuoso di attrattività di immigrazione qualificata. L’immigrazione è una prova della capacità della democrazia di salvaguardare contemporaneamente diritti e regole.” E questo, considerato l’attuale clima politico, mi sembra il punto più ostico da affrontare, anche se cerco di non cadere in depressione perché tale nodo come concludono gli autori, "per un Paese è l’anticamera della recessione".

Francamente, per adesso, i molti articoli che propongono soluzioni, secondo me tutte sensate e condivisibili, mi paiono voci che gridano nel deserto. L’economista Roberto Antonio Romano su Domani del 6 settembre definisce il calo demografico come la causa della mancata crescita italiana. Sì, l’Italia si distingue sempre in negativo: “Tra il 1990 e il 2024 ha perso quasi due milioni di persone in età lavorativa. …tradotto in termini economici, equivale a circa 40 miliardi di Pil potenziale svanito."

"Da trent’anni la produttività ristagna, incapace di recuperare i 40 miliardi di reddito mancato. Questo significa che non solo abbiamo meno lavoratori, ma che ognuno di essi produce meno rispetto ai colleghi europei.”

Secondo Romano su questi temi il dibattito pubblico “è quasi inesistente. Politica e istituzioni preferiscono concentrarsi su misure con effetti immediati…”: il piccolo cabotaggio, direi io, di incentivi a pioggerellina, per la natalità (Family card), le imprese (cuneo fiscale), l’ingresso di manodopera straniera (click day decreto flussi).

Richiederebbe un consenso plebiscitario e uno sforzo immane invertire la rotta di questa glaciazione: con meno donne che scelgono la maternità, o meno figli, e meno donne in assoluto; sempre meno lavoratori occupati e conseguenti sempre meno risorse economiche; un’immigrazione insufficiente anche se fosse favorita, organizzata, istruita; per adesso i flussi migratori non bilanciano il calo demografico.

Sui giornali leggo cifre sempre più preoccupanti (indubbiamente la stampa nazionale ha cominciato a parlare della riduzione della popolazione con maggiore frequenza): il rapporto Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) 2025 riporta che nel 2060 l’Italia avrà 12 milioni di lavoratori attivi in meno.

Sul Sole del 26 settembre i giornalisti Giorgio Pogliotti e Claudio Tucci ci dicono che intanto, anno 2025, le culle vuote dipendono anche dai giovani Neet: 1 milione 400.000, che non studiano, non lavorano, quindi con scarse prospettive di formare una famiglia e/o avere figli (e quindi sempre meno nascite per le generazioni future). Le donne inattive, poi, cioè fuori dal mercato del lavoro, al primo gennaio 2024 erano 7 milioni 800.000. Tra le varie ragioni di questo disastro, quello principale pare essere la cura familiare: cioè la necessità di occuparsi dei figli e degli anziani, un dato purtroppo in crescita, secondo una ricerca Cisl. "Fin qui - scrivono gli autori - le misure messe in campo dal governo non hanno inciso particolarmente."

Secondo l'Inps (nella stessa pagina del Sole) i dati sull'occupazione del primo semestre 2025 sono scesi del 2,6 per cento rispetto allo stesso periodo 2024; perché gli unici contratti in crescita sono quelli stagionali e intermittenti.

Se è vero che l'inverno demografico è ormai un problema globale (il calo delle nascite interessa tutto il Mondo: nel 2100 il 97 per cento dei Paesi del globo ne sarà toccata), l'Italia ha il primato di essere in caduta libera.

Tornando al saggio di Alessandro Rosina, ecco la senilità che avanza, secondo me il tratto più italiano della questione. "Siamo stati ... il primo Paese al mondo a vedere gli under 15 superati dagli ultra 65enni." In Europa, "l'Italia è il Paese con più persistente bassa fecondità". Secondo l'autore, i margini di recupero nel nostro Paese sono ampi, dato che "l'Italia parte dal maggior sottoutilizzo in Europa della componente sia giovanile (detiene il record di Neet ...) sia femminile.

Tuttavia i giovani - per il futuro dei quali si dovrebbe avere l'attenzione maggiore - non sono considerati più di tanto: a una certa politica conviene. In una lettera al quotidano Domani (venerdì 5 settembre) Francesco Sannicandro fa notare il nesso fra invecchiamento degli abitanti e scelte politiche e sociali. "Una società più vecchia, per definizione, vota in modo più conservatore." Lo si è visto con la Brexit, ricorda.

A favore dell'uscita dall'Eu votò il 52 per cento degli elettori britannici; per il Remain si pronunciò il 48 per cento, la differenza fu di un milione di voti circa. Era il 23 giugno 2016. Gruppi sociali più istruiti e giovani - secondo analisi statistiche del sito della Bbc - hanno preferito il Remain, più nelle città che nelle campagne; altre interessati analisi evidenziano anche la scarsa partecipazione al voto dei più giovani. Gli ultra 65enni hanno votato per l'83 per cento (e il 60 per cento ha votato per l'uscita), mentre solo il 36 per cento della fascia 18-24 anni (Sky data) si è pronunciata. I Neet non studiano, non lavorano, e troppo spesso neppure votano.

Oggi, a 10 anni di distanza da quel voto (l'uscita effettiva è del 2020), prevalgono ripensamenti e rimpianti, ma il "dossier" non sarà ripreso in mano.

Tornando all'Italia, e al saggio di Alessandro Rosina, ampio dossier ricchissimo di dati, uno dei capitoli più inquietanti riguarda il nostro scarsissimo sostegno alla transizione scuola-lavoro. Infatti l'inserimento attivo nel mercato dell'occupazione è ovvio presupposto - come già accennato - alla stabilità necessaria per pensare a un figlio. Invece, il percorso lavorativo è sempre più inceto e precario, e tardivo. "E' un dato di fatto che l'Italia sia entrata in questo secolo con investimenti in formazione terziaria, in politiche attive del lavoro, in ricerca, sviluppo e innovazione, persistentemente più bassi rispetto alla media europea".

"Il tasso di Neet è la principale misura di quanto un Paese dilapida il potenziale delle nuove generazioni, a scapito non solo dei giovani stessi ma anche delle proprie possibilità di sviluppo e benessere." Siamo tra i peggiori in Europa: con un divario di 10 punti percentuali rispetto alla media europea, nella fascia 15-34 anni. I nostri giovani escono quindi di casa, diventano autonomi, intorno ai 30 anni; in Francia, Germania, Scandinavia intorno ai 25.

Questa pioggia di dati, coerente con le difficoltà anche femminili sull'occupazione, il sostegno alla cura dei figli, indica poi un tendenza al peggioramento, accompagnata da una logica di aggiustamenti al ribasso. L'Europa, per esempio, considera cruciali i servizi all'infanzia. Rosina ricorda che nel 2002 il Consiglio europeo "ha stabilito come obiettivo per 2010 quello di arrivare almeno al 33 per cento di copertura dei nidi (posti disponibili sul potenziale di utenza) sotto i 3 anni di età. Tale obiettivo non è stato raggiunto dall'Italia né nel 2010 e nemmeno nel 2020".

L'innovazione industriale, la tecnologia, i robot, l'intelligenza artificiale, si diceva sopra. Eppure l'urgenza qui e ora pare la mancanza (cronica), nelle aziende, di addetti: più e meno qualificati. Nel prossimo quinquennio - soprattutto per l'uscita dei più anziani dal posto di lavoro, il 90 per cento - serviranno fino a 3,7 milioni di figure (3,3 milioni se l'andamento dell'economia rallenterà): così in prima pagina del Sole 24 Ore del 20 luglio, a firma Claudio Tucci. Tuttavia i nuovi occupati potrebbero essere solo 679 mila nell'ipotesi migliore. I dati provengono da Unioncamere con il ministero del Lavoro. Proprio al presidente di Unioncamere Andrea Prete il giornalista chiede un parere sull'allarme denatalità per le imprese. Ovviamente, dichiara Prete, la prospettiva di avere nel 2050 un terzo della popolazione over 65 non è sostenibile, né "per lo sviluppo, per il welfare, per i conti pubblici". Per le imprese questo significa anche mancanza di competenza e profili professionali all'altezza. Servono adeguati percorsi di istruzione e una politica che incentivi "il rientro dei giovani che si sono trasferiti all'estero. Tra il 2019 e il 2023 sono espatriati quasi 200 mila 25-34enni, 58mila dei quali laureati". E poi, il 21,1 per cento del fabbisogno riguarda lavoratori stranieri, come reperirli? chiede Tucci. Secondo Prete, oltre a programmare e controllare gli ingressi bisogna pensare a percorsi di formazione già nei Paesi d'origine "e provvedere a fornire un alloggio a quanti verranno a lavorare in Italia".

"Buttarla" solo sul problema degli immigrati (il politologo Dario Fabbri suggerisce di smetterla di chiamarli 'migranti', perché non sono di passaggio, la maggior parte sono qui per restare) non è sano. Le politiche che suggerisce il professor Rosina toccano in modo globale lo Stato sociale, donne, famiglie, giovani, scuola, lavoro, industria, università, ricerca, ammortizzatori sociali, sanità, previdenza, pensioni, e certamente anche la gestione deghli immigrati. Suggerisce anche di valorizzare gli over 65, pensionati che potrebbero ancora produrre (menomale!), col "favorire una lunga vita attiva di successo... valorizzando la forza lavoro matura, e ottenendo di conseguenza anche più solidi e sostenibili conti pubblici". "Sempre più importante è, inoltre, la collaborazione tra generazioni. L'invecchiamento della popolazione non mette, infatti, necessariamente in competizione la permanenza dei lavoratori maturi con le opportunità dei nuovi entranti. Ciò avviene solo nele economie che non crescono."

L'Italia cresce solo dello 0,6 per cento, dati Ocse, previsioni Pil 2026 (riporta il Sole del 28 settembre), quindi bisognerebbe rimboccarsi le maniche, tutti quanti. Manca però una guida che incanali una giusta reazione corale. Altrimenti, da dove sarebbero saltati fuori tutti i giovani - e i meno giovani - che scendono in piazza, in Italia più che altrove, per la Palestina (e forse non solo per quello)? Se ne sono accorti tutti - alcuni con speranza altri con timore - che sottotraccia le manifestazioni dicono "di più". Ma mancano le menti lungimiranti, colte, capaci di fare sintesi fra i bisogni quotidiani e l'attenzione per le tragedie oltreconfine, mancano gli ideali. E cito per ora solo velocemente il saggio dello storico Aldo Schiavone, Occidente senza pensiero, il Mulino 2025. Leggo nel risvolto di copertina: "Nel cuore dell'Occidente, in Europa come in America, si è aperto un vuoto di idee senza precedenti, proprio mentre stiamo attraversando un passaggio d'epoca in cui avremmo più che mai bisogno di un nuovo pensiero."

Manca questo nuovo pensiero, manca la politica.

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